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Museo dell'intreccio mediterraneo di Castelsardo

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IL LUNISSANTI

06.04.2020

Il Lunissanti

La cerimonia conosciuta in tutto il mondo come “Lunissanti” che si svolge a Castelsardo ogni anno il giorno dopo la Domenica delle Palme, affonda le sue radici nelle pieghe dei secoli ma non così il suo nome. Fu Don Gavino Falchi, storica guida religiosa del paese per ben 40 anni (dal 1948 al 1988, anno della sua scomparsa), a mutare il consueto e dialettale “Lunissantu” in Lunissanti, iniziando ad utilizzarlo in tutte le sue omelie, interventi sui quotidiani, documenti ufficiali e quant’altro, sinchè il nome non “attecchì” e divenne la denominazione ufficiale della suggestiva cerimonia. Don Falchi, conosciuto dai suoi parrocchiani come Dottor Falchi, è stato uno dei più fervidi sostenitori della cerimonia. L’ha promossa e fatta conoscere con tutti i mezzi a sua disposizione, l’ha riorganizzata inserendovi persino delle modifiche al percorso per coinvolgere maggiormente la comunità nella sua realizzazione, ma anche per renderla più durevole e suggestiva. Negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, infatti, il corteo notturno, che oggi parte dalla cattedrale (a l’incrinadda, ovvero al tramonto), in quegli anni partiva da la Pianedda, il quartiere nuovo e , per la precisione, dai locali che allora ospitavano le scuole elementari che erano ubicate dove ora svetta la nuova piazza con vista sul Golfo della Vignaccia.

Le altre parti della giornata sono rimaste quelle della tradizione e se hanno subito dei cambiamenti, ciò è avvenuto spontaneamente. La sveglia all’alba per prima messa e la vestizione degli apostoli, è l’inizio canonico della giornata. Il timido sole di Primavera illumina ancora oggi gli insonnoliti confratelli che portano il mistero, la prima delle quattro volte in cui lo “indosseranno” durante la giornata. Ora, giunti al Bastione di Sopra si spogliano delle sacre vesti per poi indossarle nuovamente alle 10:30 a poche centinaia di metri dalla chiesa di Tergu, la stessa strada che i loro nonni percorrevano a piedi. Un atto di pellegrinaggio ma anche una necessità, vista la scarsità di mezzi di locomozione disponibili nel medioevo, quando la cerimonia è nata. Con il tempo la scalata a piedi è diventata un atto di fede, un fioretto da offrire alla Madonna, ma anche un motivo di divertimento ed unione della comunità che si organizza in gruppi più o meno numerosi, più o meno giovani, più o meno “religiosi” per giungere a piedi all’antica chiesetta dei frati benedettini. Dopo la solenne celebrazione religiosa, solitamente officiata dal Vescovo, la festa campestre, oggi come allora prende il sopravento.

Le 15:00, l’ora della Passione di Cristo, è anche quella fissata per il rientro da Tergu. Gli apostoli reindossano le vesti, riprendono in mano i misteri, escono dalla chiesa e si avviano per la strada campestre, quella che anticamente univa i due centri vicini di Tergu e Castelsardo. Percorrendola a piedi si sarebbe arrivati all’ingresso della città fortificata verso il tramonto. E proprio in quell’ora, quando il sole cala e le prime ombre della sera rendono il cielo di un intenso azzurro, il corteo si ricompone. I confratelli e i cori ripartono dalla Cattedrale e percorrono tutte le strade di quello che ora è il centro storico ma che anticamente costituiva tutta città. L’innovazione di far partire il corteo dalle scuole elementari non ha infatti resistito oltre la morte del parroco che lo aveva introdotto, ora tutto il rito si svolge al centro storico e termina, una volta giunti alla Chiesa di Santa Maria delle Grazie, con l’ultima cena nella casa della Confraternita. La sede della Confraternita è un acquisto relativamente recente. Sino a venticinque anni orsono era infatti il Priore pro tempore che doveva fornire, o procurarsi da amici e parenti, un locale idoneo dove ritrovarsi per tutti gli appuntamenti conviviali che l’anno di priorato prevede. Con la morte del Canonico Angelino Borrielli, alla fine degli anni ‘90, che viveva nello stabile annesso all’antico Seminario, la Confraternita ha acquistato il fabbricato e lo ha fatto diventare la Casa della Confraternita, dove si conservano i ricordi dell’associazione e si svolgono cene, pranzi e tutti i momenti di festa e unione fraterna.

Un cambiamento fondamentale nella vita dei confratelli che segue quello avvenuto negli anni ’50 del Novecento, con l’acquisto della Chiesa di Santa Maria delle Grazie dal Comune di Castelsardo. Anticamente, infatti, la sede della Confraternita era ubicata nella chiesetta medievale di Santa Croce, che sorgeva a ridosso delle mura difensive nell’area di Manganeddu (che prende il nome da manganillos, catapulta) vicinissima all’area scelta per ospitare il cimitero dopo l’emanazione dell’Editto di Saint Cloud (1804) che stabiliva che le sepolture venissero spostate fuori dal centro abitato, in luoghi soleggiati ed arieggiati. In origine era questa chiesetta, usata in periodo medievale anche come “carroccio” per “ricoverare” feriti e caduti durante le battaglie, il punto di partenza della processione. L’edificio era ormai pericolante e si decise di demolirlo con la dinamite. Occorsero diverse cariche, ma le fondamenta hanno resistito alla distruzione.

 

Lunissanti nel 2020

La festa più amata, quella di cui tutti i castellanesi vanno orgogliosi, quella per cui si ritorna puntualmente al paese natio, nel 2020, a causa dell’emergenza sanitaria mondiale dovuta al Coronavirus ha subito dei comprensibili cambiamenti. La memoria umana ricorda di un annullamento della cerimonia solo nel 1943, in piena Seconda guerra mondiale. Gli uomini erano tutti in guerra ed i confratelli non erano da meno. Non si raggiungeva così il numero minimo necessario per avere gli apostoli portatori dei misteri ed i dodici cantori che potessero eseguire i tre cori previsti dal rituale. Vennero cosi annullati tutti i riti della Settimana Santa, alcune processioni venero fatte in tono minore (il Giovedì), e Lu Lcravamentu, il venerdì, non si fece.

Nel 2020 la situazione è diversa, la Confraternita, di cui l'attuale priore è Giovanni Borrielli ha 86 aderenti e per il Lunissanti anche coloro che vivono lontani sarebbero tornati come sempre, ma la pandemia mondiale ha bloccato tutti gli appuntamenti, anche quelli sacri, che prevedono assembramenti. Il parroco della Concattedrale di Sant’Antonio Abate, Don Pietro Denicu, che ricopre anche la carica di Cappellano della Confraternita dell’Oratorio di Santa Croce, farà in modo che sulla pagina Facebook della parrocchia, grazie alle dirette streaming, i fedeli vivano comunque questo momento senza nessun rischio per la salute.

 

Curiosità

Lo stendardo simbolo della Confraternita, che viene portato in processione durante i funerali ed in tutte le occasioni liturgiche, è la copia fedele di un vessillo più antico risalente, almeno, ai primi dell’800. Entrambe le versioni sono custodite all’interno della sagrestia di Santa Maria, l’originale però è totalmente rovinata nella parte bassa. Non è dato sapere se tale danneggiamento sia dovuto all’abitudine dei fedeli di chinarsi a baciare i piedi della Madonna che vi è raffigurata, oppure alla consuetudine di portare la bandiera in processione arrotolata attorno all’asta (teoria meno affascinante ma molto più probabile). Una leggenda locale individua nei tre personaggi rappresentati sulla destra un frate, Brancaleone III Doria ed Eleonora d’Arborea che la leggenda vuole abbiano contratto matrimonio proprio nella chiesetta di Santa Maria, cosa poco probabile vista la tradizione sarda che impone che il matrimonio venga celebrato nella località di origine della sposa, ma è anche possibile che la cerimonia sia stata ripetuta anche nella città fortificata dai Doria. Sulla sinistra dell’antico stendardo si intravvedono tre confratelli in preghiera.

La chiesa di Santa Maria è unica nel suo genere. Era in origine la cappella dei frati del convento di San Martino ma anche, prima dell’edificazione della Cattedrale alla fine del 1500, la chiesa che accoglieva i fedeli della città dei Doria. Ha una sola facciata laterale, lo scheletro di un rosone in pietra all’interno (indizio di un probabile ingrandimento dell’edificio successivo alla sua costruzione) e si trova circa due metri sotto il livello della piazzetta d’accesso. Nella piccola cappella frontale all’ingresso due angioletti scolpiti sopra una colonna sorreggono uno scudo araldico, cancellato dal tempo o forse dalla mano malvagia di qualche invasore. Qualcuno ipotizza che lo stemma raffigurasse l’Albero della casata degli Arborea, i cui Giudici hanno combattuto fino alla fine dei loro giorni per difendere la libertà della Sardegna. Sulla sinistra rispetto all’altare è presente un ritratto, di autore ignoto, che rappresenta Lu Biaddu Juseppu (Il Beato Giuseppe), ovvero Padre Giuseppe Monserrato, un frate del convento di San Martino morto in odore di santità nel 1717. In occasione della sua morte la gente non seppe resistere e in tanti strapparono parti della sua tunica e ciocche dei suoi capelli per ricavarne una reliquia da portare a casa.

L’antica strada che univa Tergu a Castelsardo, passando per quella che veniva chiamata Baddi di l’Inferru (La valle dell’inferno). Scorreva nelle vicinanze un corso d’acqua, sul fondo del quale si dice che il diavolo abbia deposto la sua campana. La chiesa di Nostra Signora di Tergu, risalente al 1100 circa, possiede tre diverse entrate, un espediente per evitare litigi tra gli abitanti dei tre diversi paesi (Nulvi, Osilo e Castelsardo) in cui era diviso l’attuale territorio di Tergu, diventato comune solo nel 1980. Ripetuti scavi intorno alla chiesa hanno riportato alla luce le strutture dell’antica Abbazia, con l’interessante presenza di due differenti pozzi. Nel maggio del 1873 durante dei lavori alla torre del campanile, un cedimento alla scala causò la caduta di un muratore e di due giovani manovali, dalla considerevole altezza di tredici metri. I tre furono prodigiosamente estratti vivi dalle macerie, un colpo di fortuna che la popolazione attribuì, senza dubbio alcuno, all’intervento divino.

 Di fianco alla chiesa di Santa Maria, fu edificato il Convento di San Martino, che è stato recentemente restaurato. In passato fu anche luogo di castigo per i frati ribelli, mentre oggi è sede del nuovo Museo delle Origini Genovesi. Custodisce, murata proprio sopra la porta d’ingresso, una palla di cannone, preziosa testimonianza del coraggio dei nostri antenati. Fu sparata verso l’antica Castel Aragonese dalle galee del genovese Andrea Doria, durante l’assedio del 1527. I cittadini del castello combatterono con coraggio, confidando anche nell’aiuto divino. Sulle mura venne esposto lu Criltu nieddu, un crocefisso ligneo del 1300, copia di quello esposto nell’Abbazia madre di Montecassino. La battaglia impazzò tutto il giorno e, alla sera, arrivò provvidenzialmente una tempesta di maestrale che costrinse le navi degli assalitori a ripararsi all’Asinara mentre le truppe di terra andarono, per consolarsi della mancata presa della città, a saccheggiare Sorso, Sennori e Sassari. Da allora il crocefisso è considerato miracoloso, la città lo invoca nei momenti di difficoltà.

                     

 

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